Negli Stati Uniti la Corte Suprema ha abolito la storica Sentenza Roe Vs Wade, che 50 anni fa aveva reso l’aborto un diritto costituzionale. L’accesso all’aborto era garantito a livello federale. A seguito di questa decisione, i singoli Stati sono liberi di decidere se rendere legale o meno l’interruzione della gravidanza; sono liberi di applicare le loro leggi statali in materia.
In alcuni Stati americano l’aborto è vietato, in altri è ammesso in particolari circostanze.
Il dibattito sull’aborto si è riacceso.
In Italia, il diritto all’aborto è sancito dalla legge n. 194 del 1978, intitolata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.
Leggendo attentamente la legge regolamenta i casi in cui l’aborto è ammesso; stabilendo quando è permesso e concesso abortire.
La legge distingue due ipotesi:
- L’interruzione volontaria di gravidanza prima dei 90 giorni;
- L’interruzione volontaria di gravidanza dopo i 90 giorni.
Nel primo caso, l’art. 4 precisa che “per l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell'articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia.”.
Se si ha intenzione di interrompere la gravidanza entro i primi 90 giorni, non occorre che vi siano problemi di salute: è sufficiente che la donna manifesti le difficoltà economiche, sociali e familiari, cui potrebbe andare incontro partorendo.
Nel secondo caso, se la donna intende abortire dopo i 90 giorni, ed accedere quindi al cosiddetto aborto terapeutico, la legge all’art. 6 è chiara: “L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.”.
È possibile procedere con l’interruzione di gravidanza solo nel caso in cui la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, oppure quando ci sia l’accertamento di processi patologici che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della stessa.
Viepiù, i casi di processi patologici, tra cui rientrano quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, devono essere accertati da un medico e l’interruzione terapeutica può essere effettuata entro il 180° giorno.
Sul tema, la giurisprudenza (Cass. Civile, Sent. n. 653 del 15 gennaio 2021), ha chiarito che per procedere all’aborto terapeutico non vi è necessità che l’anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strutturalmente o clinicamente accertata, essendo al contrario sufficiente che la gestante sia messa al corrente di aver contratto una patologia che, con apprezzabile grado di probabilità, sia atta a produrre anomalie o malformazioni del feto. Gli Ermellini affermano due importanti principi di diritto: “l’accertamento di processi patologici che possono provocare, con apprezzabile grado di probabilità, rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro consente il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza, ai sensi della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b) laddove determini nella gestante – che sia stata compiutamente informata dei rischi – un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, da accertarsi in concreto e caso per caso, e ciò a prescindere dalla circostanza che l’anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata.”; “il medico che non informi correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali correlate a una patologia dalla medesima contratta può essere chiamato a risarcire i danni conseguiti alla mancata interruzione della gravidanza alla quale la donna dimostri che sarebbe ricorsa a fronte di un grave pregiudizio per la salute fisica o psichica”.
Al ricorrere delle condizioni indicate, si ha il diritto di abortire.
Con la legge n. 194, approvata il 22 maggio 1978, ssono state disciplinate le condizioni e le modalità di accesso all’aborto; tra gli effetti principali, tra gli altri, la diminuzione degli aborti clandestini.
A distanza di 44 anni dall’approvazione della legge, ancora sono molte le difficoltà, legate all’applicazione effettiva della stessa.
Tra i temi giurisprudenzialmente più dibattuti l’obiezione di coscienza, che la stessa legge riconosce all’art. 9; le statistiche descrivono che in Italia 7 medici su 10 sono obiettori!
Dall’altro lato la cosiddetta obiezione di struttura: pare che solo il 60% degli ospedali con reparto di ostetricia ha un servizio IVG, interruzione volontaria di gravidanza.
Per concludere, in tema di obiezione di coscienza, la giurisprudenza (Corte Cass. Sent. n. 18901 del 17 novembre 2020) ha consolidato un importante principio, in linea con il dettato normativo ci sui all’art. 9 della legge n. 194 del 1978: “La legge esonera il medico obiettore dal partecipare alla procedura di interruzione della gravidanza solo in relazione alle attività "specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza" e non anche per quelle di assistenza ovvero per quelle strumentali, come nel caso di specie, non a determinare l'interruzione della gravidanza ma a verificare se l'interruzione vi sia stata ed ad accertare che non vi siano rischi per le condizioni cliniche e di salute della donna. Il medico può solo rifiutarsi di causare l'aborto, chirurgicamente o farmacologicamente, ma non anche di prestare assistenza.”.
La Corte spiega che il diritto di obiezione non esonera il medico dall’intervenire durante l’intero procedimento di interruzione volontaria della gravidanza, ma solo a compiere un’attività specificamente e necessariamente diretta a determinare l’interruzione della gravidanza; il medico non può rifiutarsi di prestare assistenza alla donna.
Il diritto di obiezione di coscienza trova un limite nella tutela della salute della stessa.
Pertanto, la Cassazione ha precisato che l’articolo 9 della legge n. 194 del 1978 non prevede di omettere l’assistenza medica antecedente o successivamente ai fatti che hanno causato l’aborto.
Due pronunce in ambito “aborto” con particolare riferimento alla fase ecografica ed alle implicazioni penali ex art. 328 c.p.
Corte d'Appello Genova, Sez. lavoro, 27/10/2020, n. 207Inizio moduloFine modulo. Con il compimento dell'ecografia il medico si limita ad accertare l'avvenuta interruzione della gravidanza (esattamente come farebbe nei confronti di una paziente che ha subito un aborto spontaneo), e tale condotta non rientra dunque tra quelle cui egli è esonerato in forza della sua qualità di "obiettore".
Cass. pen., Sez. VI, 27/11/2012, n. 14979 Integra il delitto previsto e punito dalla norma di cui all'art. 328 c.p. il rifiuto del medico di guardia, obiettore di coscienza, di intervenire per prestare necessaria assistenza alla degente nella fase successiva all'aborto indotto per via farmacologica da altro sanitario (cd. secondamento), e dunque in una fase non diretta a determinare l'interruzione della gravidanza. Il diritto di obiezione di coscienza, invero, non può intendersi in modo tale da esonerare il medico dall'intervenire durante l'intero procedimento di interruzione volontaria della gravidanza, in quanto si tratta di interpretazione che non trova alcun appiglio nella disciplina di cui alla legge n. 194 del 1978, la quale prevede che il diritto di obiezione di coscienza trova il suo limite nella tutela della salute della donna. In ogni caso, trattandosi di un aborto indotto per via farmacologica e non chirurgica, la fase rispetto alla quale opera l'esonero da obiezione di coscienza è limitata alle sole pratiche di predisposizione e somministrazione dei farmaci abortivi (nella specie già conclusasi al momento della richiesta di intervento dell'imputata).
Avv. Massimo Ambrosi
Dott. Edoardo Manucci