La vicenda di Alessandro, il ragazzo di 13 anni precipitato dal quarto piano di casa sua a Gragnano (NA), è venuta all’attenzione delle cronache nazionali.
È un quadro complesso quello che si sta disegnando; prima si è parlato di una drammatica tragedia poi di cyberbullismo. Man mano che le indagini vanno avanti ed emergono nuovi elementi, si fanno largo diverse ipotesi. Adesso pare sia stato ipotizzato il reato di istigazione al suicidio.
Del 3 ottobre 2022 la notizia di un 14enne bullizzato a scuola, dai compagni, per esser qualificato “secchione”: la cronaca parla di trauma cranico e rottura del setto nasale, di una matita conficcata in testa.
In cosa consiste il reato di istigazione al suicidio?
L’art. 580 c.p., rubricato istigazione o aiuto al suicidio, prevede che “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima.
Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio.”
La norma punisce la condotta di determinazione in altri del proposito suicida precedentemente assente, di rafforzamento di un proposito suicida già esistente infine di agevolazione al suicidio.
Viepiù. Il dettato normativo dice altro, infatti il reato in trattazione non sussisterebbe se la vittima non attuasse, a seguito delle condotte di determinazione, rafforzamento ed agevolazione, la condotta suicida o se la vittima, fallendo nel suo intento, non si procuri una lesione grave o gravissima.
Nel nostro ordinamento il reato sussiste soltanto se il suicidio avviene o se dal tentativo di suicidio deriva una lesione grave o gravissima.
La giurisprudenza (Cass., Sez. V, del 23 novembre 2017 n. 57503) sul punto è stata chiara, affermando che la norma punisce l’istigazione al suicidio a condizione che la stessa venga accolta e il suicidio si verifichi o quantomeno il suicida, fallendo nel suo intento, si procuri una lesione grave o gravissima. L’ambito di tipicità disegnato dal legislatore esclude, dunque, non solo la rilevanza penale dell’istigazione in quanto tale, ma altresì dell’istigazione accolta cui non consegue la realizzazione di alcun tentativo di suicidio ed addirittura di quella seguita dall’esecuzione da parte della vittima del proposito suicida da cui derivino, però, solo lesioni lievi o lievissime.
Sempre con riferimento alla struttura della fattispecie in esame, va rilevato che, la sola condotta di determinazione, rafforzamento ed agevolazione non basta per l’integrazione del reato, infatti, la semplice idoneità causale della condotta non è sufficiente, ma occorre che essa sia orientata in modo finalistico verso la realizzazione del suicidio di una persona determinata.
In altre parole, le condotte di derisione, critiche o vessazioni psicologiche, che pure abbiano contribuito alla formazione del proposito suicida, non sono da ricondursi tra quelle punibili ex art. 580 c.p. se prive dell’orientamento finalistico.
La condotta dell’agente, quindi, deve essere tale, da indurre la vittima a compiere la condotta suicida e, altresì, deve essere stata posta in essere nel fine che il suicidio avvenga; quindi per la sussistenza del reato di cui all’art. 580 c.p. occorre il dolo, ovvero la consapevolezza e volontà dell’agente di porre in essere una condotta rivolta al suicidio della vittima.
Sul tema la giurisprudenza ha consolidato un importante orientamento, secondo il quale, il dolo richiesto sarebbe non solo quello generico consistente nella cosciente e libera volontà di rafforzare con la propria azione il proposito suicida e di fornire i mezzi materiali per il suicidio al suicida, ma anche quello specifico che consiste nel fine che il suicidio avvenga.
Il secondo comma dell’art. 580 c.p. prevede al primo periodo un aggravamento di pena nel caso in cui la vittima sia minore di anni 18 o sia inferma di mente ovvero si trovi in condizioni di deficienza psichica mentre al secondo periodo chiarisce che se la vittima è minore di anni quattordici o è priva della capacità d’intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio di cui agli artt. 575, 576, 577 c.p.
Il tema “istigazione o aiuto al suicidio” è stato molto “trattato” dalla cronaca anche per le note vicende relative alla cd. “morte assistita”. La Corte Costituzionale (Corte. Cost., Sent. del 22 novembre 2019 n. 242) ha pronunciato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della L. 22 dicembre 2017 n. 219 ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità idonee, comunque sia, a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Il Giudice delle Leggi si è pronunciato consentendo, quindi, di superare l’automatismo di cui all’art. 580 c.p., che incriminava la condotta di aiuto al suicidio, in alternativa, alla condotta di istigazione a prescindere dal suo contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio; nonché incriminava la condotta di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incide sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione alcuna rispetto alla condotta di istigazione.
Trattasi di argomenti molto complessi. Per quanto riguarda le condotte descritte all’inizio dello scritto, appare evidente che occorre tanta formazione, oltre che la legge, al fine di prevenire comportamenti che spesso conducono ad esiti drastici ed irreversibili, alla morte del soggetto passivo.
Avv. Massimo Ambrosi Dott. Edoardo Manucci