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CORTE COSTITUZIONALE – SENTENZA N. 128 DEL 4 GIUGNO 2024 – LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo si segnala la recentissima sentenza n.128 del 4 giugno 2024 emessa dalla Corte Costituzionale la quale ha sancito la parziale illegittimità costituzione dell'articolo 3 del D.lgs 23/2015 sancendo che nell'ipotesi in cui dovesse essere accertata la manifesta insussistenza (PRESUPPOSTO INESISTENTE) delle esigenze rappresentate dal datore di lavoro  a fondamento del licenziamento, questo verrà condannato alla reintegra del lavoratore atteso che si tratterebbe di un recesso che è senza causa – prima ancora che senza giusta causa – e perciò collide proprio con il principio della necessaria natura causale del recesso.

In sostanza la Corte Costituzione sostiene che se è vero che non è sindacabile dal giudice la ragione d’impresa posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, atteso che essa rientra nelle valutazioni economiche che spettano al datore di lavoro (In generale, l’art. 30, comma 1, della legge n. 183 del 2010 prevede che «[i]n tutti i casi nei quali le disposizioni di legge […] contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente») ma l’esclusione di tale sindacato di merito presuppone che il “fatto materiale” allegato dal datore di lavoro sia “sussistente” (ad esempio, che il posto di lavoro sia stato effettivamente soppresso), mentre appartiene alle «valutazioni tecniche, organizzative e produttive» la ragione economica per cui il posto è stato eliminato; del resto «la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica» (sentenza n. 125 del 2022).

Parimenti la Corte precisa che la valutazione del possibile ricollocamento del lavoratore appartiene, altresì, all’area di sindacabilità del giustificato motivo oggettivo [rimane – beninteso – che, ove sussista il fatto materiale su cui si appoggia la ragione d’impresa allegata dal datore di lavoro, si ricade invece nell’ambito delle «valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro» (art. 30, comma 1, della legge n. 183 del 2010)]; se il posto di lavoro è stato soppresso, ma il lavoratore avrebbe potuto essere ricollocato in azienda, il licenziamento rimane senza giustificato motivo oggettivo, e come tale illegittimo, anche se non può dirsi che esso si fondi su un fatto materiale insussistente.

In sostanza: la discrezionalità del legislatore nell’individuare le conseguenze di tale illegittimità – se la tutela reintegratoria o quella solo indennitaria – non può estendersi fino a consentire di rimettere questa alternativa ad una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su ‟un fatto insussistente”, lo qualifichi, come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare. La conseguenza, in termini di garanzia per il lavoratore illegittimamente licenziato, non può che essere la stessa: la tutela reintegratoria attenuata prevista per l’ipotesi del licenziamento che si fondi su un “fatto materiale insussistente”, qualificato dal datore di lavoro come rilevante sul piano disciplinare.

Prosegue la Corte: Il licenziamento fondato su fatto insussistente, allegato dal datore di lavoro come ragione d’impresa, è, nella sostanza, un licenziamento pretestuoso (senza causa), che si colloca a confine con il licenziamento discriminatorio (che è viziato da un motivo, appunto, discriminatorio).

In sintesi ed in conclusione: la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 128, depositata il 16 luglio 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata (con la tutela reintegratoria attenuata il giudice, annullando il licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno. Il risarcimento, in questo caso, corrisponde ad una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto sia ci che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. Il legislatore fissa inoltre un limite massimo per il risarcimento, che non può in ogni caso superare un importo pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto) si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (cd. repêchage).

Avv. Alfredo Bonanni