La responsabilità medica è quel tipo di responsabilità che deriva dai danni cagionati ai pazienti da errori ed omissioni dei sanitari.
Va premesso che la medicina, oltre che come scienza, viene considerata alla stregua di una vera e propria arte e di conseguenza, quando si parla di responsabilità nell'ambito dell'esercizio dell'attività medica, si pone l'accento sulla prudenza, perizia e diligenza impiegata dal sanitario nello svolgimento delle attività mediche, con particolare attenzione alle fasi più delicate come la diagnosi e l'individuazione della terapia, anche chirurgica, da eseguire sul paziente.
Tendenzialmente, infatti, la scelta degli interventi terapeutici è rimessa alla discrezionalità del sanitario, cosicchè la colpa di quest'ultimo si ravvisa nell'osservanza delle regole di condotta proprie della professione finalizzate alla prevenzione del rischio collegato alla scelta terapeutica.
Concentrando l'attenzione alla ipotesi di responsabilità medica per errore diagnostico commesso da un sanitario, si deve evidenziare che fino al 2009, l'ordinamento non dava alcuna indicazione particolare.
Da ciò conseguiva l'applicazione dei principi generali in materia di colpa, indipendentemente dalla circostanza che in capo al medico si configurasse una colpa lieve, mediocre o grave ai fini della propria responsabiltà in ciò che aveva sbagliato. Dunque, pregnanti risultavano gli approdi delle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la cd. "Sentenza Franzese" che, in tema di reato colposo omissivo, ritenevano configurabile il rapporto di causalità se -considerando avvenuta una azione omessa ma doverosa- si fosse riscontrato che l'evento dannoso o si sarebbe verificato più tardi o avrebbe avuto una minore intensità lesiva (cfr. Cass., SS. UU. n. 30328/2002).
Successivamente, con l'entrata in vigore della Legge Balduzzi (d.l.158/2012 convertito in L.189/2912) -nel 2012- si modificava il quadro completo delle linee guida e, in particolare, l'articolo 3 della predetta Legge giungeva ad escludere la rilevanza penale della condotta dell'esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, si fosse attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, pur rimanendo esposto ex art. 2043 del codice civile. Il summenzionato art. 3 veniva abrogato -nel 2017- dall'articolo 6 della Legge Gelli Bianco (L.24/2017) che prendeva in considerazione, invece, le linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge.
Nell'ambito dell'errore diagnostico, le linee guida si individuano come degli standard diagnostici e terapeutici che siano conformi a ciò che la scienza medica indica come migliori possibili e dunque come trattamenti atti a mantenere integra la salute del paziente e frutto di acquisizioni scientifiche nell'ambito medico terapeutico, tecnologico e metodologico.
Sul punto, la Corte di cassazione ha emesso una pronuncia molto rilevante per ribadire in quali circostanze sia possibile parlare di "errore diagnostico" e segnatamente, quando il medico dinanzi a uno o più sintomi di una malattia, non li riconduce ad una patologia nota o li riconduce ad una patologia errata e quando il medico omette di sottoporre il paziente ai controlli e agli accertamenti che invece sono doverosi per formulare una corretta diagnosi.
La condotta del medico è altresì colposa quando la sinotmatologia lamentata dal paziente dovrebbe indurlo a formulare una diagnosi differenziale, ma egli non vi provveda e resti nella posizione diagnostica iniziale, peraltroerrata (cfr. Cass. Civ. n.47448/2018).
Viepiù, recentemente, la Suprema Corte è tornata sul tema ribadendo che l'esercizio dell'attività medica impone a chi la pratica la massima prudenza, perizia e diligenza nello svolgimento degli atti medici che essa comporta e dunque, preliminarmente nello svolgimento della diagnosi e nella individuazione della terapia, anche chirurgica, che si rende necessaria. In questo caso, laddove siano possibili più alternative, il medico deve improntare le proprie scelte alla massima prudenza al fine di evitare di mettere a rischio la salute e la vita del paziente.
Di conseguenza, nell'ottica degli Ermellini, l'errore diagnostico non si configura soltanto quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o di disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formlazione della diagnosi.
Il sanitario, infatti, è tenuto a valutare l'oppotunità di compiere gli approfondimenti diagnostici necessari per stabilire quale sia l'effettiva patologia che affligge il paziente e adattare le terapie a queste plurime possibilità. In sostanza, fino a quando il dubbio diagnostico non sia stato risolto e non vi sia incompatibilità tra accertamenti diagnostici e trattamenti medico-chirurgici, il medico che si trovi di fronte alla possibilità di diagnosi differenziale non deve accontentarsi del raggiunto convincimento di aver individuato la patologia esistente quando non sia in grado, in base alle conoscenze dell'arte medica da lui esigibili, di escludere la patologia alternativa, proseguendo nell'iter degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti necessari.
Di talchè, l'esclusione di ulteriori accertamenti può essere giustificata esclusivamente per la raggiunta certezza che una delle patologie possa essere esclusa ovvero- nell'ipotesi in cui i trattamenti terapeutici siano incompatibili- che possa essere sospeso quello riferito alla patologia che, in base all'apprezzamento di tutti gli elementi conosciuti o conoscibili, se compiuto secondo le regole dell'arte medica possa essere ritenuto privo delle caratteristiche di maggiore gravità e possa, quindi, essere ragionevolmente adottata la scelta di correre il rischio di non curare una patologia che, se esistente, potrebbe provocare danni minori rispetto alla mancata cura di quella più grave (Cfr. Cass. Pen., sez IV, 12/11/2020 (ud. 12/11/2020, dep. 06/04/2021) n. 12968. In tema di responsabilità medica, in presenza di due alternative terapeutiche, il medico è tenuto a scegliere la soluzione meno pericolosa per la salute del paziente, con la conseguenza che egli è responsabile, in caso di complicazioni, e nonostante l'osservanza delle regole dell'arte, per imprudenza, ove adotti l'alternativa più rischiosa. (In applicazione di tale principio la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione di un medico che - per una sospetta endometriosi poi rivelatasi insussistente - aveva sottoposto la paziente a un intervento di isterectomia, dal quale, nonostante la corretta esecuzione, era derivata la lesione dell'uretere, per non avere approfondito se, in base alle linee guida, fosse preferibile effettuare una terapia farmacologica, sia pure dagli effetti temporanei, in attesa di poter scoprire, grazie alla reazione della paziente a tali cure e ad ulteriori approfondimenti diagnostici, la fondatezza della diagnosi di sospetta endometriosi).
Dott.ssa Miriana Martoni